La nostalgia non è romantica | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

Cara Maia,

spero tu stia bene. Non ho tue notizie da… ere.

A volte vorrei tanto che le menti delle persone fossero connesse. Come i dispositivi col wi-fi. Vorrei che sapessi che ti sto pensando, senza dovertelo dire. Così, automaticamente, tu pensi a me, perché ti arriva la mia notifica mentale. E io non devo sforzarmi di dirti qualcosa, di trovare le parole. Un po’ come facevamo coi vecchi cellulari, gli squilli senza risposta. Bella paraculata, eh?

Perché scrivere pesa, parlare pesa. E io non ti mando un messaggio da così tanto. Sarà per questo che ora sto usando una bic e un pezzo di carta. Chissà se fa più male vomitare tutto in libertà o filtrare ogni sillaba in un WhatsApp, che arriva così velocemente e ti lascia davvero poco tempo per modificare il testo o rimuoverlo, prima che il destinatario lo veda. Penso di stare per scoprirlo.

Forse un giorno sarà attuabile la telepatia muta che desidero. I corpi sono pur sempre macchine. I cervelli funzionano a impulsi elettrici. I cervelli fanno tutto. Odiano, amano. S’innamorano. Viene tutto da lì.

Forse questo non lo sai, perché non ci vediamo da anni e di certo io non te l’ho detto, ma non credo più nell’anima, non credo più a Dio, non credo più a niente. Ed è diventato tutto così grigio, ma in un certo senso più affascinante. Ci pensi? Provaci. Siamo robot morbidi che generano tutti quei patemi sentimentali per cui incolpiamo il cuore (che è solo una pompetta. Quante responsabilità diamo a una pompetta?), e, dicevo, l’anima che ci siamo inventati.

Il fato non esiste, non siamo collegati da niente. I fili rossi ce li hanno le mercerie, e servono a rammendare le maglie rosse e basta. Non c’è un motivo per cui ci accadono le cose. O meglio, ce n’è uno solo. Credo a un solo destino, quello umano, quello del nostro carattere. Me lo disse la mia prima insegnante di scrittura e non l’ho più dimenticato. È un destino che ci porta in un posto piuttosto che in un altro, perché siamo fatti così. Che ci porta da una persona. Che ci separa da una persona, perché siamo fottutamente fatti così.

Sai qual è un’altra roba a cui credo? Forse è la faccenda più scema del mondo. Le coincidenze. Sono simpatiche le coincidenze. Se non ci sono, puoi inventartele per sentirti meglio. O per soffrire di più, perché siamo noi a voler soffrire di più. E se in quel momento ciò che desideriamo è arricchire di significato il nostro dolore, che male c’è? L’importante è non scatenare guerre sante o dare la colpa a qualcun altro.

Adesso potrei raccontartene tante, di queste coincidenze. Che mi ricollegano continuamente a casa mia, ormai lasciata da un bel po’. Te ne dirò solo una, ti riguarda.

Non è stato solo l’aneddoto che sto per riferirti, che mi ha fatto pensare a te. Ci pensavo già quasi ogni giorno a te. Mi sono chiesto così tante volte quando tu avessi saputo che me n’ero andato, chi te l’avesse detto, cosa hai pensato a riguardo. Sapessi quante volte ho girato per il centro di questa città da solo e ti ho raccontato, commentato quello che vedevo. Come se tu ti trovassi lì con me o come se dovessi rivederti di lì a poco. Ho passato pomeriggi interi senza spiccicare una parola eppure nella mia testa, a te, ne dicevo tante. La nostalgia è una puttana. Ma su questo, forse, tornerò poi.

Allora, dicevamo. La coincidenza. Questa mi ricorda te proprio tutti i giorni, senza saltarne nemmeno uno. Ogni volta che metto il naso fuori dal condominio.

Indovina dove vivo ora. Vicino un campo di calcio. Ci giocano le ragazzine della Juve. Evito di passarci davanti a piedi. Lo evito come la peste, anche se con la macchina devo. Non è una roba eclatante, penserai. Ne è piena la nazione, di campi sportivi. Ma di me nella nazione ce n’è solo uno. E pure la casa dove sono nato e cresciuto sta vicino a un campo di calcio.

Quante domeniche pomeriggio abbiamo trascorso seduti in tribuna? A guardare le partite di Lucio, quello che veniva a scuola con noi e ti piaceva. Quanti anni avevamo? Diciannove? T’accompagnavo solo per stare con te, perché non avevo le palle di dirti che m’ero innamorato. Come oggi non le ho per farti una telefonata.

Ti ricordi quando ti spiegai tutto, quasi un anno dopo? Quando ti raccontai tutti i motivi dietro i miei gesti? Avessi potuto vedere come ti brillavano gli occhi. Trovavi tutto romantico. Ma non c’era niente di romantico. Non c’è niente di romantico quando uno sta male. Se lo sfigato di turno è il personaggio di un film o di una canzone, sì. Sennò è uno sfigato e basta. Un impedito.

Ero un incapace. Quando ci conoscemmo, iniziai a puntare a farti ridere in ogni occasione. Come se le battute facessero innamorare la gente. Ma almeno mi parlavi. Almeno diventammo amici. Finché mi piacevi e basta ci riuscivo sempre a strapparti una risata, ma poi l’attrazione diventò amore (credo) e allora diventò difficile pure quello.

Tu ti guardavi novanta minuti di partita la domenica, ti sgolavi a fare il tifo per il tuo idolo. Io passavo un’ora e mezza a far finta che la cosa non mi trafiggesse la pancia e a rimuginare su cosa potevo dirti, dopo il triplice fischio, per rubarti un sorriso. Avevo perso la capacità di improvvisare, mi erano morte le cazzate pronte in bocca. Ogni volta che ti vedevo, non riuscivo più a formulare una frase. Temevo di essere diventato noioso per te, ormai. Ma non ci ho pensato nemmeno una volta ad arrendermi. Accompagnarti al campo era l’unica carta che avevo da giocare. E come io non avevo il coraggio di dichiararmi, pregavo quel dio in cui credevo che nemmeno tu trovassi la forza di farti avanti con Lucio.

Io nemmeno mi ricordo cosa mi diede finalmente quella spinta, per dirti che ti amavo. Forse ero arrivato allo stremo, ogni giorno con te era diventato insostenibile. Ho aspettato veramente tanto. Come ho atteso più avanti per decidermi a scappare a ottocento chilometri da casa.

Dovevo farlo, per provare a fare quello che mi piace veramente. Chissà se almeno di questo sei orgogliosa di me. Chissà se almeno questo mio unico tentativo di fare una cosa buona nella vita ti permette, in una piccolissima parte, di perdonarmi. Dimenticare come la nostra storia appena nata deragliò subito verso una direzione tossica. Per colpa mia, del mio carattere.

Te l’ho già detto che il carattere è il nostro destino. Te lo dissi già all’epoca che non c’era niente di romantico in me.

Quando la domenica, da fidanzati ormai, tornavamo a guardare Lucio giocare, cazzo se mi rodeva. Ma lo facevo solo per la soddisfazione di baciarti davanti a lui. Come se quel povero coglione avesse mai saputo qualcosa, della nostra situazione. Come se stesse pensando a noi, invece che a ficcare la palla in rete.

E io ormai non ne potevo più di quel passatempo. Ormai ti avevo. A che mi serviva sorbirmi un’ora e mezza di una partita che avrei potuto seguire gratis dal balcone della mia cameretta, e di cui comunque non me ne fregava niente? Chi me lo faceva fare di pendere ancora dalle tue labbra, di fare qualsiasi cosa tu desiderassi da me, dopo che avevo sofferto un anno in silenzio? Non toccava a me tenere un po’ le briglie? Smettere di assecondarti e ricevere finalmente io le attenzioni? 

Avevo un enorme credito da riscuotere verso di te, per tutti quei mesi passati a farti da zerbino: questo è quello che iniziai a pensare allora. E quando da pensiero diventò azione, distrusse tutti i progetti stucchevoli che ci dicevamo ai primi appuntamenti. Potrei provare a giustificare il mio egoismo dietro la giovane età di allora, ma ancora adesso, se ci torno con la memoria, mi fa male il petto.

Fu molto facile trovare un altro modo di passare la domenica, dopo che mi lasciasti. Mi bastava prendere l’auto e allontanarmi dai fischi dell’arbitro e dai cori dei tifosi. La parte difficile era non pensarti.

Certe notti ti sogno. E quando non ti sogno sto sveglio e ripenso alle nostre urla, alle tue guance che si rigavano di lacrime. Ripenso a quanto vorrei, ora, rompermi le palle qualche domenica con te sugli spalti. Che sia lì da noi o qua dalle juventine.

Forse, però, la mia mente partorisce ‘ste lagne solo quando le giornate mi girano a merda e mi chiedo chi cazzo me l’ha fatto fare di cambiare vita. E allora mi viene nostalgia di tutto, di casa, della campagna. Di te.

La nostalgia non è romantica. È il rifugio dei paraculo. Solo a chi sta male manca il passato. Hai mai visto uno felice oggi rimpiangere ieri? Lascia che risolva un paio di cose qua che mi stanno togliendo il sonno e mi scorderò tutto questo.

Ho sottovalutato la solitudine. Avessi avuto qualche amico qua, sarebbe stato diverso. Non avrei sentito il bisogno dei tuoi abbracci e delle tue carezze mentre tenevo la testa sulle tue gambe, che si sobbarcavano tutte le mie frustrazioni, le stesse che ti scaricavo addosso. Non avrei condiviso qualsiasi cagata facevo su Instagram o sugli stati di WhatsApp le prime settimane dopo il trasferimento, solo per sperare che tu vedessi come fingevo bene di divertirmi. Come stavo facendo credere a tutti voi laggiù che mi stavo realizzando. Che non avevo bisogno di niente.

È da imbecilli usare i social per dimostrare di essere sicuri di sé, in realtà rimarca proprio il contrario. L’ho detto sempre e poi ci sono cascato anch’io. Forse è per questo che ho usato un foglio stavolta. Anche se questa lettera sta per essere strappata. Non è giusto fartela avere.

Ormai posso essere sincero, altrimenti non ha senso. Non lo so se ti penso perché sto male o se sto male perché ti penso ancora. Non ho mai smesso di farlo e ci cerco una scusa dietro, qualcosa che mi faccia resistere dal cercarti, che mi faccia sempre fermare un passo prima. Tipo un’innocua storia di Instagram senza chattare. O una lunghissima lettera senza spedirtela. Perché io non sono cambiato d’una virgola e non ho il diritto di importunarti ancora.

Non starei qui a piangere se fossi cresciuto.

Ma continuerò a farlo, ad andare incontro al mio male. Sperando che esploda come un brufolo orrendo a un certo punto. Che non mi lasci qui, in questo limbo. Preferirei sprofondare nei rimorsi e affrontare il demone. Nutrirò le coincidenze per soffrire di più. Da domani andrò al campo sportivo qua vicino. Starò lì a guardare sia gli allenamenti che le partite.

So di non meritarla, ma mi auguro davvero che tu non abbia mai provato un briciolo di nostalgia per me. E che non la provi mai per niente e nessun altro.

Perché la nostalgia non è assolutamente romantica.

Racconto liberamente ispirato al brano “Moviola” di Jordi Lou