“Dumba” – Il nuovo album di Assurditè | Recensione
Di Stefano Giannetti
Dumba – Assurditè
Jazz? Etnica? Funk? Pop? Forse un po’ di tutto questo. Ma ci piace più pensare a niente di tutto questo. Nel senso che Dumba di Assurditè non si può ingabbiare in uno o più generi musicali. Come non è facile definirne la tematica: visionaria, distopica, contemporanea, futurista, filosofica, disillusa (specie su quest’ultimo aggettivo si potrebbe discutere, se si ascoltano “Bella storia” e “Cimici”, ma ci torneremo poi). Tutte queste non-definizioni sono ovviamente la forza di questo lavoro magistrale.
Così maturo ed è solo il suo primo album. Un concept in cui la cantautrice Chiara Balzan, classe 1999, entra nel personaggio di una giornalista del 2124 e fa un impietoso report dell’epoca che sta vivendo (con tanto di magazine annesso). E, guarda un po’, somiglia tanto a quella di un secolo prima.
Intro
Dal riff che apre l’album Assurditè ha estrapolato la parola Dumba, che dà il titolo all’opera. E rimane già nella testa, la tormenta piacevolmente. Come faranno, ad esempio, anche il ritornello di New Delhi e la base che conduce al finale di Donnaccia.
Finto cielo
“Ho scalato una piramide solo per poter vedere il tetto di questo finto cielo di accordi e mezze regole”.
Partiamo subito con un grande inganno, guardi in alto e perdi certezza e speranza. Nel cielo. Che è stato custode e dio per l’uomo nel corso dei millenni.
Sono il potere e la corruzione a rendere di carta ciò che ci circonda e ci custodisce, come in un Truman Show? È il risveglio dall’intorpidimento provocato dalle verità create apposta per le religioni, come Chiara dirà più avanti? In verità è molto di più, perché anche ciò che sta più in basso e tra i nostri piedi, il mondo che dovrebbe essere più palpabile, le pare poco vero.
L’unica via di sopravvivenza in un mare di incertezze sembra quindi trovare una direzione propria. Fabbricarsi le proprie convinzioni, a dispetto di quelle che qualcuno ha confezionato per noi.
Corriamo senza futuro
“Viva la noia, perché ci fa pensare ancora. Sì però intanto il tempo vola, ma avrò fatto abbastanza prima che io muoia?”
Attraverso un’immaginaria caccia al tesoro del 2124 riservata ai giovani (che ha come premio… la realizzazione personale?), viene dipinto un ritratto doloroso della nostra generazione. Dei giovani veri e dei giovani fino ai quarant’anni, questi ultimi creature create dalla società molto prima del ventiduesimo secolo.
Mentre ci fermiamo a riflettere su cosa farne delle nostre vite, le lancette corrono e nessuno ci restituirà il tempo perso; se facciamo più tentativi possibili, se acceleriamo per non lasciarci niente indietro mentre cerchiamo la nostra vocazione o tentiamo di individuare un mestiere che ci faccia campare e che magari non ci faccia bestemmiare tutto il giorno (grande pretesa di noi ragazzi e non-ragazzi di oggi, vero?), magari prendiamo solo cantonate.
Un dilemma irrisolvibile. Il futuro non esiste per definizione perché deve ancora arrivare, e quando lo farà, si chiamerà presente. Come il presente che ci roviniamo da soli, sia che corriamo, sia che riflettiamo inghiottiti dal divano.
Donnaccia
È il pezzo più enigmatico dell’album. Forse il più affascinante, suadente, ermetico e più ricco di possibili interpretazioni.
La mercificazione della donna nell’arte, nella contemporaneità e nel desolante futuro immaginato. Ma anche l’arte stessa può essere mercificata per arrivare a più persone, per essere di più facile presa e di ancor più facile ritorno economico. Contro il racconto di una visione più sincera e certamente più criptica, che di certo viene recepita da meno teste.
È l’arte la donnaccia? L’ispirazione è una meretrice, che si concede quando vuole e non premia mai, se ciò che l’artista ha prodotto non è abbastanza vendibile? O pretendiamo troppo dalle velleità?
L’arte è la fotografia del tempo in cui si trova, ma “non c’è cosa più noiosa dell’inserto culturale, parolone per spiegare che la storia è sempre uguale”. Non possiamo essere salvati nemmeno da lei, quindi, dalla sua espressione più impegnata, se non impareremo mai dai nostri errori.
Donnaccia sembra il bad trip seducente, attraverso le figure femminili che cita, di un artista o aspirante tale che lotta interiormente per capire cosa dire, come dirlo, come farsi comprendere. E quanto ne valga davvero la pena.
Voglio
“Non sappiamo più chi siamo, chi ero, chi eravamo, figuriamoci chi saremo”.
Con un mood da brano suonato in un piano bar, una dichiarazione di resa. Il “voglio” insistente che apre la canzone sembra un’ostinazione a desiderare qualcosa. Ma subito ci dà uno schiaffo. Perché l’ultimo desiderio (della giornalista?) è quello di non dover pensare più a niente, di lasciarsi portare alla deriva che il mondo aveva in serbo per noi dall’inizio. Che tanto “non sappiamo più chi siamo, chi ero, chi eravamo, figuriamoci chi saremo”, e nemmeno “se siamo veri o solamente favole”.
Un veleno indorato, somministrato con la dolcezza della voce di Chiara e delle musiche che ci accompagnano alla nostra fine. Fine che forse, come la canzone stessa, sarà abbastanza lenta da non risparmiarci la sofferenza. E l’ultima voglia che resta è quella di urlare.
Centri di anzianità
Collegato a Voglio dal suono vorticoso che lo apre, Centri di anzianità ci culla proprio come i giri di un ventilatore da soffitto o di una lavatrice, qualcosa che resta sempre uguale e dà sicurezza.
“Vivo contemporaneamente le birrette e le guerre”. Gli indignati da tastiera e da aperitivo, con cellulare e birra a proteggerli dai missili che tanto stanno solo in tv. Attacchi aerei a cui si può rispondere col puntuale disappunto, lasciando che il tempo scorra velocissimo mentre agli occhi accecati dalla luce blu sembra fermo.
È un centro di anzianità, sì, perché finito un reel di Instagram, dal 2024 arriviamo in un lampo al 2124. Quindi? Ci alziamo per provare a cambiare qualcosa o è meglio non sudare che tanto è già troppo tardi?
Intanto un altro giro, barista, grazie.
Spiritosa
“Nel nome della madre, della figlia e della Spiritosa”.
Qui si distrugge la legge più antica. Assurditè smonta la fede, gira la Trinità al femminile. Come terza persona l’ironia, che ha sempre tenuto un po’ a galla chi sa praticarla nella vita.
“Do un bacio al sole e dopo lo disprezzo, perché son viva e pratico il mio orgoglio”: un vecchio problema che perplime chi prova a credere. Perché dobbiamo essere sempre grati di tutto ciò che abbiamo intorno? Se siamo vivi e dotati d’intelligenza, potremo pur fare a pugni col posto in cui ci troviamo (esistono pure tipi felici sempre e comunque, sì. Si chiamano Teletubbies). Specie se non capiamo il motivo per cui certe cose accadono.
Chi si ostina a credere passa più tempo a giustificare Dio che a pregarlo (“Dio forse è morto o sbaglia già da un pezzo”).
La risposta, come sempre, anche per chi pensa di seguire pedissequamente il libro della propria religione, è che ognuno, consciamente o meno, segue una fede personale.
E questa preghiera lieve e spietata rivela la sua natura di manifesto del culto individuale con un coro che ricorda una liturgia a chiuderla.
New Delhi
“Vado via, ma dove?”
Questa è la traccia che forse, grazie al ritmo e al refrain, arriva più facilmente, ma non è da prendere per un pezzo leggero.
New Delhi è un urlo apatico, per quanto la definizione possa sembrare un ossimoro, di chiunque non ne può più delle giornate sempre uguali, dove è già tanto se riesci a lavorare e campare e non hai il diritto di volerti pure sentire benino. È quell’illusione occidentale secondo cui in posti esotici troveremo noi stessi. Che una fuga sia salvifica e risolva tutto.
“Giro giro il mondo giro e cado sempre”: forse siamo consapevoli che ce la stiamo solo raccontando, che il desiderio di scappare è solo un palliativo per il dolore che ci opprime. O esiste ancora qualcuno che crede in una salvezza da cui ci separa solo un volo d’aereo?
Bella storia
L’ultimo matrimonio sulla Terra, nel 2124. L’amore eterno, seppur rappresentato da un’unica coppia, forse è, insieme al brano successivo, l’unico bagliore di speranza nella distopia di Dumba.
“Siamo la terra dentro gli ecosistemi” – “noi come due stelle siam perle tra belve”. Se in Spiritosa e Finto cielo la salvezza era l’io, qui quantomeno è il noi. Quindi, forse, un po’ più in alto si può volare. Cercando il proprio mondo sulla pelle, nella carne e nel cuore dell’altro.
Cimici
L’amore e la guerra. Come un’evoluzione di Bella storia, o una Bella storia osservata al microscopio.
Forse non si parla della coppia del brano precedente, ma non ha importanza. Il letto che ospita due corpi e due anime è un bunker contro la fine del mondo che c’è fuori. E la paura dell’apocalisse non esiste più, l’unica preoccupazione è riuscire ad “amare senza limiti”.
È sufficiente un “letto senza cimici”, un posto dove nessun altro possa entrare, qualsiasi cosa accada. Tutto il resto perde pericolosità e significato (“se casca il mondo noi eravamo già per terra”).
Ci sarebbe ora da trarre delle conclusioni riguardo questo introspettivo e ipnotico viaggio nel futuro/presente, questo ampio spettro di punti di vista. Ma è proprio per il suo carattere caleidoscopico che è impossibile identificare Dumba. Se questo articolo venisse riscritto dopo un’altra settimana di ascolti ripetuti (che verranno comunque effettuati per puro piacere personale), probabilmente verrebbe fuori diverso, frutto di nuovi stimoli che l’album avrà donato alla mente. Perché ogni volta che lo si riascolta vi si trova dentro una nuova chiave di lettura, sia che lo interpretiamo attraverso la nostra visuale delle cose, sia se cerchiamo di entrare nel pensiero di Chiara e decodificarlo. O ancora se ci sforziamo di scardinare tutti i dogmi della vita.
Un’opera intima e in continua espansione al tempo stesso, una perla che continua a lavorarti nel cervello e a stimolarlo per ore intere dopo averlo ascoltato. E merita davvero di restare (e mutare) nella memoria di tutti.
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