Di Mattia Farci
E’ un Festival lento dove si cerca di dare centralità alla musica. Baglioni canta e lo sa far bene riuscendo ad abbracciare una pluralità di generazioni. Meno show e più musica, questi sono gli intenti. La kermesse vorrebbe anticipare o almeno muoversi al passo coi tempi, ma risulta troppo ancorata a stereotipi musicali d’altri tempi e superati. Ancora una volta il Festival segue una direzione e la discografia italiana un’altra.
Manifesto dei nostri giorni e di una società divisa tra il pubblico e il privato, tra il senso di appartenenza e chi vuole fuggire, tra indecisioni, dubbi ed incertezze, tra chi una direzione non l’ha ancora trovata e “tra chi vince e chi perde e chi non se la sente”. In un mondo globalizzato, interconnesso e che scorre veloce si canta l’assenza di punti fermi. Un testo impegnato che descrive in maniera vivida e cruda la deriva sociale del quotidiano. Ideologia o scelta di comodo?
Pregevoli le venature folk scandite con una chitarra che fa da sottofondo a tutto il brano e il titolo del pezzo “Dov’è l’Italia” che si ripete in loop. Motta è più autore che cantante. E’ chiamato a rappresentare l’indie italiano che avanza e incalza. Calcutta e Gazzelle restano, ad oggi, di un altro pianeta. Sei
Come un quadro cubista di Chagall. Come un dipinto d’espressione tedesca. Come un’opera architettonica di Herzog e de Meuron. Intelleggibile come un romanzo di James Joyce. Espressiva, spregiudicata, sovversiva e rock and roll. Pienamente dentro alle parole che canta. Loredana sembra posseduta dalla musica. Vibra e si fa sentire. La sua voce graffiata fa il resto. Sette ½
Ritmo incalzante, orecchi educati all’ascolto e produzione, notevole, che fa da padrona. Più reggae che hip hop, con una mano tesa al pop nel senso più canonico del termine. Azzeccata la scelta dei cori nel ritornello che rendono armonico il pezzo. Brano che però manca di flow e di questo la metrica ne risente.
Peccato, inoltre, per l’assenza del peculiare dialetto salentino che contraddistingue tutti i pezzi del gruppo. “Ti aspetterò come il goal che sblocca la partita”. Vivaci, radiofonici, ma, senza osare, non fanno goal. Dov’è rimasta l’energia che ci catapulta a bordo spiaggia, risacca del mare e un drink in mano? Molto più bravi del brano che hanno presentato. Sei
Ti aspetti un ritorno struggente, carico di simbologia, un testo sentito e quasi sussurrato da un’interprete che sa raccontare con la voce. Ti aspetti introspezione, chiaro-scuri e sfumature che tendono al grigio. Ti aspetti commozione, tormento e a tratti agonia. Ti aspetti che la voce di Arisa si rompa e cada in pianto. Il ritorno di una delle voce più intonate del panorama musicale, invece, si tinge di tutte le gradazioni di colore.
Porta a Sanremo un brano gioioso, un ritornello che funziona e un pezzo quasi fiabesco. Si impone con la sua voce senza debordare nel virtuosismo e risultare ampollosa. E’, naturalmente, raffinata. Confeziona una canzone che decolla, ma non fa volare. Si percepisce nitidamente che si sente bene e la sua urgenza di manifestarlo. Lei si sente bene e io vorrei, per scuotere le corde del cuore, che si sentisse un po’ male… Sei ½
Shade è il plagio di se stesso. La linea tra avere uno stile riconoscibile e risultare ridondanti è labile e a fare i funamboli su fili sottili a volte si cade. L’equilibrio resta precario. Il duo, già collaudato con il brano “Irraggiungibile”, si presenta sul palco dell’Ariston cercando di reiterare l’esperimento con una ballad leggera, fruibile e con un ritornello incalzante che sale sulle note di “Scusa ma”. La metrica è ben ripartita tra rap e melodia. Pezzo dalla presa immediata e altamente radiofonico, ma senza pretese. Oggettivamente: Quadro ½ Soggettivamente: Sette
Contemporaneo nell’approccio al canto, nelle scelte stilistiche e nelle sonorità. Minimalista, essenziale ed elegante nel suo incedere soul. Sperimenta e si mostra innovativo. Rivedibile il canto. Di nicchia, ma ben riconoscibile. Sei
Arrangiamento scarno e minimalista. Intimi nell’interpretazione. Lavorano per sottrazione e convincono nella loro naturalezza. In fondo è l’amore che conta e la semplicità vince sempre. Otto
Elettro-pop fatto di tastiere e bassi e un’orchestra che si sente e non ne risente. Ritmo da dancefloor, un motivo melodico strutturato in modo da fissarsi saldamente in testa e un brano che ammicca l’occhio alle radio. Poco sanremese. Citofonare “Fatti avanti amore”. Cinque
Fuori gara. Veste con eleganza un arrangiamento pazzesco. Si fa da parte per far spazio ad un velluto d’archi e ad un’orchestra che domina la scena. Le sue parole librano leggere. Delicato ed espressivo nel suo canto recitato. “Tu non cercare la felicità, semmai proteggila”. Otto ½
Una storia fatta di violenza, maltrattamenti, sofferenza, ma anche di speranza per un domani diverso. Cronache da prima pagina trattate con commuovente delicatezza. Un coro gospel, un ritornello che cresce e un ritmo serrato. Ricorda a larghi tratti Mary dei Gemelli Diversi. Funziona e, sicuramente, coglierà l’apprezzamento del pubblico. Il precipizio della banalità resta dietro l’angolo e ad Irama tocca camminare in punta di piedi. Sei ½
E’ virtuoso, non nel senso etimologico del termine in quanto dotato di virtù, ma nell’atteggiamento musicale, diffuso a partire dalla metà del XIX secolo, in seguito all’affermarsi della borghesia e alla necessità per i musicisti di stupire con particolari evoluzioni vocali il loro pubblico. Il brano porta la firma di Bungaro e, almeno in teoria, dovrebbe rappresentare una garanzia. Avrebbe potuto avere futuro migliore. Piacerà (solo) alle mamme. Quattro ½
Buona l’esecuzione, buona l’intensità e convincente complessivamente. Padrona del palco, della sua voce e dell’interpretazione. Porta all’Ariston un brano che si lascia gradevolmente ascoltare in pieno clima sanremese. Intensa. Cinque ½
Commistione tra il cantante pop che piace e l’autore proteso ad una ricerca musicale di qualità. Piano e voce. Piano è la partenza, poi la voce si sente tutta. Buona la scelta melodica, poco robusto il testo. Il duetto con Fabrizio Moro potrebbe dare nuova e diversa linfa al brano. Mi sarei aspettato qualcosa di diverso dal cantautore romano a fronte del repertorio presentato fino ad oggi. Resta il candidato più papabile alla vittoria. Sette
Personale, riconoscibile, gran senso del ritmo e un timbro di voce che è una sentenza. Si propone con un brano reso innovativo dal suo modo di interpretare. Originale anche se non adatto al panorama discografico italiano. In francese il brano scalerebbe radio e classifiche. Da risentire. Cinque
Di rara profondità. Oscilla tra il non più della vita da ragazzo e il non ancora della vita da uomo. Sguardo sognante e fiero. Una patina di malinconia su una giacca che sente i segni del tempo. Tempo che è andato e tempo che verrà. “In fondo siamo storie con mille dettagli, fragili e bellissimi tra i nostri sbagli”. Un cantautore dei nostri giorni che ricorda il primo Grignani. Credibile. Otto
Bandiere, tamburi e ticchettio di orologio. Irriverenti, dissacranti e con una chiara identità. Appino canta un testo intriso di riferimenti squisitamente politici scegliendo di presentarsi sul palco dell’Ariston con un brano senza ritornello. Ha, per questo, il merito di svegliare gli ascoltatori del Festivàl dal torpore di strutture melodiche predefinite. Per i fruitori dell’ultima ora invito vivamente all’ascolto di “Viva”. Coraggiosi. Sei
Alla fiera della banalità Einar risponde presente. Per un interprete saper cantare è imprescindibile. La penna e le capacità compositive di Maiello si sentono, la voce di Einar pure, purtroppo. Un’occasione, ingiustamente concessa, sprecata in malo modo. Quattro
Un testo sincero ed onesto. Niente di più. Un plauso a Cilembrini. “La libertà è non avere più paura”. Cinque
L’esibizione sul palco non è memorabile. In qualità studio il brano acquista credibilità. Briga ha un timbro di voce e un modo di porgere la parola unico e piacevolissimo. Il valore aggiunto è lui che illumina la scena e, mentre canta lo special, si rendono evidenti i motivi. Bel pezzo. Sei ½
Una ballad leggera che di certo non mira al Premio Tenco. Una voce pulita e misurata che torna alle origini nelle scelte stilistiche. Il brano è un pò fragile in linea con la parabola artistica della cantante. Una brava esecutrice, molto lontana dall’essere interprete. Già sentita. Quattro ½
Non è trap, non è rap, non è indie e non è pop. Mescola stili e generi in un brano energico fatto di rock e punk tra bassi e batterie. Limita l’autotune, scandisce il tempo, batte il ritmo e si lascia piacevolmente ascoltare dal pubblico generalista. Achille Lauro cita Elvis, Amy, i Doors e Hendrix. Risulta a fuoco, con qualche eccesso che in gioventù può essere concesso. Personalità da rockstar navigata. Interessante la ricerca sperimentale. Cinque ½
Un testo impegnato e delle scelte musicale ben definite. Silvestri ha stoffa e tiene ben stretto un bagaglio culturale che lo porta ad evocare immagini dure e vive di una realtà troppe volte dimenticata. Il suo brano è un monito e un messaggio di denuncia scandito in maniera forte. Coglierà, con molta probabilità, l’approvazione della giuria della critica e dei giornalisti. La coppia Silvestri – Rancore è ben assortita, ma non convince appieno. Il brano è molto distante per temi e scelte stilistiche dagli standard sanremesi. Sei
Neomelodico per definizione. Nino D’Angelo è chiamato a rappresentare la canzone dialettale sul palco dell’Ariston. Lo fa in maniera innovativa portando un brano fresco fatto di sonorità attuali anche grazie al contributo di Livio Cori. Lo sforzo del cantante napoletano è mirabile e l’utilizzo dell’autotune lo testimonia. Meno peggio delle aspettative. Quattro ½
Dopo il primo ascolto il dubbio si palesa: serviva davvero la loro presenza al Festival? Ci servono una rivisitazione di “Grande Amore”. Fastidiosi, insopportabili e irritanti. Il pubblico, per ragioni non ben conosciute, continua ad osannarli. Vecchi giovani. S.v.
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