Un altro caffè | Indie Tales

Di Stefano Giannetti

«Hai intenzione di continuare per molto?»

La fa facile, Noemi. Per me non è una situazione qualsiasi. Mira, che sta entrando ora nel bar insieme a una vampata di caldo dell’ora di pranzo, non è una persona qualsiasi. È una persona qualsiasi invece Renato, l’operaio che sta dietro di lei e che con gli occhi le ha già fatto una TAC al culo. Lei si siede, lui resta in piedi. Simulo distacco rivolgendomi allo stesso modo ad entrambi.

«Ciao, Mira. Ciao, Renato… Caffè?»

La bella tiene un basso profilo, mi sorride e china la testa. Lui non mi guarda nemmeno e sembra faticare per farsi uscire una sillaba rauca.

«Sì.»

Salutare i baristi è sempre opzionale. In fondo siamo servitù pagata dal cliente, la cortesia non ci è dovuta. La faccia entusiasta di quest’uomo, poi, andrebbe messa sui biglietti di auguri per i compleanni… i compleanni dei nemici, s’intende.

Noemi svita il braccetto dalla macchina per preparargli l’espresso. La fermo mettendole una mano sul polso.

«Faccio io. Vai a fumare, se vuoi.»

L’ho spedita a nuocere gravemente alla sua salute perché mi farà il favore quotidiano di concedermi qualche minuto oltre il suo fine-turno, permettendomi di stare un po’ con Mira, che non vuole saperne di arrivare prima; soprattutto, però, voglio assicurarmi che Renato abbia il suo elisir pronto in un nanosecondo e sparisca. Indossa già la tuta da lavoro; quindi, sta per iniziare il turno in fabbrica. Manda giù la bevanda in un sorso, con un movimento all’indietro della testa che nemmeno la Carrà; lascia un euro sul bancone mentre si gira, effettua un altro esame visivo a Mira (che per età potrebbe essere sua figlia) ed esce dal bar.

Se il caffè di Renato l’ho preparato con la solerzia di un dipendente comunale di venerdì pomeriggio, per quello mio e di Mira ci impiego tutta la cura possibile: spennello via per bene la polvere usata dal filtro, sto attenta a ricaricare la quantità giusta della nuova, riavvito il braccetto, premo l’interruttore e mentre il liquido nero e fumante esce lo minaccio. “Vedi di essere il migliore della mia carriera finora, bastardo.” Poso le tazzine nei piattini e passo dall’altro lato a sedermi.

Resto subito di sasso, perché Mira mi fa un sorrisone insperato, con gli occhi vispi e divertiti.

«“La fabbrica di cioccolato”, la versione di Tim Burton!»

Ok, fermate la pellicola del mio film mentale. Ha solo indovinato il film reale che volevo sapere da lei ieri, quando abbiamo interrotto il nostro gioco delle citazioni, cioè una delle stronzate che mi sforzo di inventarmi ogni giorno per trattenerla al bancone qualche minuto in più. Strofino le lenti degli occhiali sulla maglietta per pulirle alla meglio.

«Esatto. Puoi pagare tu, oggi.» 

Beve il caffè e mette un finto broncio.

«Non vale, però. Hai parafrasato la battuta del film.»

È l’unica persona con cui devo litigare per offrire, anziché per scroccare.

«Se non vale, non pagare.»

«Non intendevo questo, scema.»

“Scema”. Questa confidenza trasuda più tranquillità di quanto sperassi e abbassa tantissimo il mio imbarazzo nello stare sola con lei; il disagio però torna subito a decollare non appena si accorge che la sto fissando come una cretina, mentre estrae il portafogli dalla borsetta per cercare gli spiccioli.

«Che c’è? Ho il vestito macchiato?»

Potrei giurare che sia una delle mie vecchie battute. Mi sento avvampare. Forza, Irene. Puoi uscire dall’impasse, non fare… l’Irene.

«Macchiato? No, è che… è uguale a quello di ieri, solo che è arancione. Hai il guardaroba come quello di Paperino?»

Soffoca la risata e si porta due ciocche di capelli dietro le spalle.

«È il tuo occhio per il look a essere sempre uguale. Questo vestito non c’entra niente con quello di ieri.»

Lo dice squadrando il mio abbigliamento. In effetti la cosa più elegante che indosso è il grembiule quando lavoro. Alzo le spalle.

«Quando una è bella, è bella pure con due stracci. E siccome io invece sarei un cesso deambulante anche in abito da sposa… perché sudare? Polo e jeans sono la mia seconda pelle. Ogni tanto ordino capi diversi online. Ma poi non li metto.»

Scuote la testa sorridendo. Come faceva ogni volta che mi schernivo. Mi sento una cretina a tenere i miei occhi nei suoi sperando cha accada qualcosa. Ma nemmeno lei evade il mio sguardo, non sa come uscirne. Chissà a cosa pensa. Forse sta cercando il modo più gentile possibile per sfancularmi. Peccato che non avrò mai la risposta, perché Amelia sta entrando seguita da Noemi. La mia collega le grida dietro.

«Un giorno mi spiegherai perché ogni volta che marini la scuola ti vieni a nascondere nei bar del paese, quando hai due agenti di commercio di merendine per genitori, che frequentano questi posti più di noi?!»

Amelia alza gli occhi al cielo e si siede accanto a me.

«“Marini la scuola”, pure mia nonna ti darebbe della boomer. Ciao, Irene.»

Scruta un attimo Mira che ricambia, meravigliata.

«Amelia!»

«… Mira?»

«Come sei cresciuta! Quanti anni hai, ora?»

«Diciassette.»

Seduta tra loro mi sembra di seguire una partita di Ping-pong.

«E che scuola frequenti?»

Da dietro il bancone, Noemi gonfia le guance in uno sbuffo sarcastico.

«“Frequenta”?»

«Il liceo artistico.»

«Fantastico! Io mi ci sono diplomata! Ma è diventato così tremendo? Se salti le lezioni…»

Noemi ritira tazzine e piattini e li sciacqua nel lavello prima di metterli in lavastoviglie. Si slega i capelli biondi. Il mio tempo sta finendo.

«È dalle medie che fa quindici assenze al mese. Di’ un po’, Amelia. Vuoi che ti nasconda nel banco frigo qui sotto, prima che entrino i tuoi?»

Allarme rosso, Mayday o come si dice. Io e Mira in un lampo ci guardiamo: so che stiamo pensando alla stessa cosa.

Un bel momento è una carezza, ma il ricordo di un bel momento è una coltellata, se c’è stato un cambiamento di mezzo: era una mattina di settembre, come questa. Cioè, come questa un corno. È stato l’ultimo autunno della mia vita in cui mi sono sentita felice… prima che Mira lasciasse me e il paese.

Quel giorno io e lei infilammo davvero Amelia nel banco frigo, che era vuoto e spento per manutenzione, perché avevamo visto, da lontano, Angelica in arrivo. Amelia doveva avere dodici anni al massimo, andava ancora alle medie. Non riuscivamo a smettere di ridere mentre la povera Angelica ci guardava come si guardano due deficienti, ignara del fatto che tenevamo sua figlia nel bancone. Ad aggravare la situazione ci pensò il mio boss che, sopraggiunto in quel momento, riattivò senza dire nulla la corrente al refrigeratore dal quadro elettrico in magazzino. Amelia si ammalò a causa del freddo e le sue assenze a scuola lievitarono.

Mira stacca subito i suoi occhi dai miei in un modo che mi provoca una fitta al petto. Perlomeno, dopo qualche secondo riesce a indossare di nuovo una maschera serena. 

Se ho intenzione di continuare per molto, mi chiede Noemi. 

Se questo fingere che tra noi non ci sia stato nulla, di aver accettato di averla persa per sempre mi permetterà di rivederla per un altro caffè, ce la farò anche domani. Al minimo accenno di rivangare qualcosa di noi, Mira si ritrae, ma da quando è tornata, la porta di questo bar l’ha aperta ogni giorno.

Racconto ispirato al brano IRENE di Mèsa